LETTERA DI UN EMIGRANTE
Cara moglie, ora ti scrivo, / da questa città ricca e triste,
dove mi ha sbattuto la sfortuna, / e mi sento tramortito.
Lavoro come schiavo e come tale / mi osservano e mi trattano queste genti;
quasi come fossi discendente / non dall’uomo ma da un animale.
Ed io, abituato a stare tra gli amici, / a raccontarci le pene e le speranze,
a confortarci nelle sofferenze, / soffro, moglie mia, in modo indicibile.
Spesso mi prende la voglia / di saltare sul primo treno per tornarmene a casa
per abbracciare i figli e baciare te / per ritrovarmi tra gli amici e per sentire
il belato della pecora e la vicina / che rincorre la gallina o il cane
che gira per casa morto di fame; / o alzare gli occhi e osservare il mare,
gli alberi, le strade, le case del paese, / i buoi col carro pieno di fascine,
la chioccia che difende i suoi pulcini, / gente che piange o si spancia di risate,
che ti guarda, ti parla, ti saluta, / e sa che hai un’anima e un cuore
e non ti considera un pezzo di un motore. / Ma poi mi giro e ti vedo seduta
mentre rattoppi la camicia o i pantaloni, / e pensi al focolare ancora spento
passando un altro giorno ancora amaro / senza neppure un tozzo di pane in cassapanca.
Dimentico allora il treno e con il cuore amaro, / raccolgo i quattro soldi guadagnati,
ti scrivo il vaglia e lo bacio. Te l’ho spedito, / moglie mia, inzuppato di lacrime.